Delle norme, ovvero un decennio di commissione consiliare regionale veneto
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Uno degli aspetti probabilmente meno “notabili” della professione dell’urbanista è quello della formazione delle norme. Le regole del gioco passano sempre in subordine rispetto alla forma della città, ovvero l’aspetto grafico prevale sulla parte regolativa, e coinvolge meno, non solo per un retaggio antico che fa prevalere il designare come disegnare, rispetto alla prosaica normazione, mero elenco di affabulazioni ideologiche, o prono rispetto del sovraordinato acriticamente assunto o, ancora, mera copia consolatrice dello storicamente/geograficamente vicino. Eppure, questa subordinazione dovrebbe essere di fatto una collaborazione: anche etimologicamente la norma (che era la squadra) e la regola (che era il tiralinee) sono gli strumenti del disegno, forma del designare (che, a sua volta, è trasformare in segno, ovvero il dire, imporre la parola, in un fantastico cortocircuito logico).
In estrema sintesi, generalmente le norme di un piano possono quindi essere viste come coabitazione di due grandi sistemi: quello della con-formazione (che induce a riprodurre al suo interno norme sovraordinate, di per sé stesse già applicabili, in una forma di inutile citazionismo erudito) e quello della de-formazione (con volontà di lasciare un segno ab-norme, ovvero contrario alla norma stessa, per parossismo o per pronità a specifiche esigenze, prova ne sia la continua battaglia tra Regioni e Consiglio di Stato). Passa quasi sempre in secondo piano la funzione (principale) di attivazione/gestione di processi contemporaneamente adeguati ai problemi rilevati ed agli scenari voluti.
La moderna sconfitta della norma è peraltro rinvenibile in molti segni: iniziata anni or sono con il piano disegnato (dove si trasformava in grafema ciò che non si riusciva a normare, progressivamente decostruendo il territorio in quella città per parti che tanto successo ha avuto), ha proseguito il suo calvario con l’iper-normazione (molte norme uguale nessuna norma), con il progetto che è norma a sé stesso (SUAP, piano casa etc.), per finire con (l’ormai) istituto della variante continua. Per non parlare della proliferazione della deroga: ormai (non solo nell’esperienza veneta) non vi è testo che non contenga più deroghe alla norma che norme “normali”, nel disperato tentativo di normare l’infinita varietà o di salvare specifiche esigenze.
Una lunga introduzione che è già racconto di un decennio di personale esperienza (in rappresentanza di ASSURB) all’interno della II Commissione Consiliare della Regione Veneto, che si esprime sui progetti di legge su Politiche del territorio, infrastrutture, trasporti e lavori pubblici, politiche dell'ambiente, difesa del suolo, cave, torbiere e miniere. Le audizioni sui progetti di legge in fieri con i rappresentanti di categorie e professioni sono una importante esperienza non solo da un punto di vista schiettamente tecnico (si tratta di uno dei momenti più alti, in quanto attuazione della delega regionale in materia urbanistica), ma anche partecipativo (in quanto confronto e scambio di informazioni/visioni).
A parere di chi scrive, è proprio in questi punti nodali che nascono tutta una serie di problemi che, a cascata, inficiano la formazione della legge, problemi che non possono non riflettersi sull’oggetto della legge, ovvero il territorio. Il vizio di fondo nasce dalla mescolanza proprio del tecnico e del partecipativo nel momento politico, in una confusione che non rispetta il ruolo delle varie componenti (e degli spazi espressivi) e limita la comprensione della fase procedimentale. Se da una parte appare ovvio che le diverse categorie rappresentate rappresentino i loro interessi, non appare normale che la visione propugnata sia limitata/limitante ad un orizzonte dell’hic e del nunc, senza tenere conto non solo del bene comune (orribile termine) ma anche del comune contesto in cui ci si muove. In altre parole, non può dirsi che ci sia vera partecipazione. Il processo di tesi – antitesi – sintesi (non, all’italiana, compromesso, il cui significato ambiguo è sia accordo tra le parti che irrimediabilmente danneggiato) viene ulteriormente vanificato da tecniche difensive degli interessi consolidati e il trasferimento del confronto politico all’interno della procedura tecnica, per cui le osservazioni alla norma diventano pregiudiziali politiche e la difesa della stessa è pregiudizialmente politica: spesso anche le annotazioni su errori materiali (di citazione, di rinvio ecc.) vengono considerate come “attacco politico” funzionale alla “dilazione dei tempi” (con eterogenesi dei fini da parte di tutti gli attori). Ovviamente il territorio (e connesse strategie) in tutto ciò rimane l’ultimo dei problemi: ciò potrebbe essere considerato normale se si considera il territorio come l’agone di interessi, ma l’urbanistica dovrebbe essere la ri-composizione (nel senso alto del termine) degli stessi.
Concreto esempio potrebbe essere l’approvazione del Piano Territoriale Regionale di Coordinamento nel 2020 che, in decenni di elaborazione è stato progressivamente “smagrito”, perdendo la sua funzione di scenario (tempus fugit), di normazione (non vi è stato un successivo adeguamento della pianificazione), di costruzione di autonomia (la valenza paesaggistica, con la relativa attribuzione di competenze, è sfumata nell’iter). Solo marginalmente si può rilevare la vischiosità temporale non solo nei processi pianificatori (che contrasta con la velocità delle mutazioni in atto), ma anche negli adempimenti (si pensi proprio alle deleghe “offerte” – per così dire – dal dpr 380/2001, che dovevano essere prese come preziose occasioni, ma …).
Tale vischiosità si è vista anche nell’attuazione della lr 11/2004 (ovvero la legge urbanistica regionale fondamentale): a quasi vent’anni (e prossima al pensionamento anticipato) ancora il 10% dei comuni veneti è privo della richiesta pianificazione strategica/operativa ed esistono ancora piani che si rifanno alle (abrogate) procedure della precedente lr 61/1985, in virtù di una complessa struttura derogatoria che nella sua articolazione è ormai priva anche di intelligibilità linguistica. Quello che si vuole sottolineare, però, è che ciò appare sintomatico di una mal digerita riforma: la suddivisione in PAT (piano strategico) ed in PI (piano operativo) non è stata (volutamente?) compresa, e la strategicità si è trasformata in una non scelta o in una scelta rinviata, perdendo la sua funzione di costruzione di scenario valutativo delle successive trasformazioni/scelte. Ciò si è riflesso sul Piano degli Interventi, che da Piano del Sindaco (ovvero esplicitazione delle strategie di un mandato amministrativo) si è progressivamente articolato in una innumerevole quantità di varianti, volte ad affrontare problematiche/interessi contingenti. La (necessaria) flessibilità/adattabilità del piano (che già G. Astengo prefigurava con estrema lucidità nella sua pianificazione continua) non è stata colta come occasione e deviata verso una più ancora spinta burocratizzazione dei processi decisionali, che (in cerca di una giustificazione legale) seguono vie tortuose ed allungatoie amministrative. Non si tratta di condizioni imputabili solo alla gestione pubblica: anche l’intervento privato è sempre apparso poco incline alla programmazione delle sue azioni sul territorio, spinto da improvvise esigenze ed improvvide pulsioni, in uno scenario altrettanto frammentato (e molto spesso contraddittorio).
In questo contesto, la Regione ha di fatto perso (o non ha voluto prendere?) il controllo del processo della costruzione del territorio, non solo non riuscendo a produrre uno scenario comune (come si è accennato nel caso del Piano Territoriale di Coordinamento), ma anche delegando gran parte dei processi amministrativi legati alla formazione dei piani, ma solo dal punto di vista urbanistico, mentre è stata mantenuto il controllo sulla VAS, anche con paradossi disciplinari, quale ad esempio la VAS delle cosiddette Varianti verdi, ovvero in “riduzione” delle previsioni urbanistiche (paradosso in quanto la VAS valuta la trasformazione di uno stato di fatto e, quindi, nello specifico caso valuta il “mantenimento di uno stato di fatto”). Se a ciò, come abbiamo visto, si mantiene lo status quo a causa di una mancata valenza paesaggistica del PTRC, ecco che l’azione di semplificazione amministrativa magicamente provoca una trasformazione del procedimento, che diventa “uno e trino”, tra enti che peraltro rifiutano di confrontarsi all’interno di eventuali camere di compensazione (quali la conferenza dei servizi).
D’altro canto, invece, la produzione normativa regionale ha di fatto “saltato” le competenze comunali, come nel caso dell’applicazione del “Piano Casa” e dei suoi successori (che ha costituito una parte normativa fiorentissima nel decennio passato). Questa normativa ha praticamente svuotato il sistema di premialità a disposizione di una Amministrazione comunale per indirizzare la trasformazione territoriale, un sistema che però non aveva dato molti risultati per il timido approccio. La conseguenza (paradossale) è stata che una legge contestata e contestabile si è trasformata (quando oculatamente governata dalle amministrazioni locali) nell’unico strumento di successo nel campo del rinnovo edilizio. Il paradosso successivo deriva dalla continua confusione tra edilizia ed urbanistica: il rinnovo degli immobili (favorito da un modello insediativo unifamiliare o poco più, ed accompagnato dalla piccola impresa edile) ha ulteriormente compromesso la trasformazione urbanistica, perpetrando nel tempo situazioni che avrebbero invece necessità di interventi radicali.
Proprio in sede di Commissione si evidenziano altre chiare criticità: oltre al problema dei contenuti e della prefigurazione di scenari (tema squisitamente politico), risulta chiara la necessità di una ingegnerizzazione amministrativa (ovvero di costruzione di procedimenti semplici e correlati), oltre che di una visione della norma come strumento/possibilità di affrontare una problematica individuata come tale (e non come modo di affrontare una specifica contingenza), che va monitorata nei suoi effetti (e sul monitoraggio/qualità dei dati, fondamentali per un approccio razionale, si aprirebbe una ulteriore, lunga parentesi). Tale chiarezza amministrativa appare estremamente necessaria in un contesto quale quello veneto, composto da cinquecento piccoli comuni scarsamente attrezzati ed oberati di adempimenti. A complicare ulteriormente tale quadro, si aggiunge il problema del contenuto “ideologico” delle norme, particolarmente vistoso a partire dalla lr 14/2017 e dalla complementare lr 14/2019. Esse (con le altre disposizioni correlate) attivano una iper-denominazione di uno strumento antico, ovvero il Piano di recupero, che viene declinato in innumerevoli nominazioni che, di fatto, ne limitano l’operatività (in origine molto “aperta”) ed aumentano la confusione: paradossalmente si potrebbe affermare che più strumenti di recupero abbiamo e meno riusciamo a recuperare (o rigenerare, rinaturalizzare, riusare etc.). Lo stesso vale per il concetto di consumo di suolo, che a son di distinzioni e definizioni crea solo disordine amministrativo e “contabile”, senza incidere decisamente sul fenomeno (come dimostrano i dati disponibili, ma anche l’accesso limitato ai citati strumenti “alternativi”).
Solo per motivi di chiarezza, vorrei concludere questo rapido intervento con un concetto che ho sempre posto a premessa delle osservazioni presentate durante i lavori della Commissione, e che rappresenta anche la chiave di lettura di quanto fin qui espresso: ribadivo (e ribadisco) che non si tratta di osservazioni politiche, in quanto vanno in tale sede sempre rispettate pienamente le scelte e gli organi rappresentativi deputate a compierle, ma tecniche (immagino che l’uso di tale termine disturberà qualcuno), ovvero in valutazione di coerenza, congruità e rispondenza alle esigenze/problemi identificati. Sia concesso all’urbanista almeno il mugugno galileiano dell’Eppur si muove.